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venerdì 7 agosto 2009

BANDIERE PADANE SUL TRICOLORE ROMANO

BANDIERE PADANE SUL TRICOLORE ROMANO




Si! Venga venga!… toh! Ma varda là! L’è un fijoi! Va lì che bel faccino… vien su, vien su!
Salii la rampa esterna delle scale fino al primo piano, in quel cortile vecchio e muffo, dove si affacciavano corone di balaustre in vecchio ferro ritorto, che menavano su porte e finestre in ogni stato, da marcescenti a fresche di vernice, pensando che la miseria aveva una inaspettata capacità di resistenza persino al nord ricco ed industrializzato. Intanto la donna continuava a dimenare la mano per farmi accelerare il passo. Era una tizia di mezza età, con un trucco pesante e i capelli tinti di recente con il classico bordo marroncino intorno allo scalpo. Conciata com’era dava l’impressione di essere in procinto di girare una scena in un film di Fellini.
Alùra! T’ei un professorino, né? Va tu che roba! T’ei un fenumen… un genio, al dis el professur Mosca!
Le feci una smorfia di circostanza prima di chiarire che non ero un professore e che il soprannome “O’ Filosofo” mi derivava da tutt’altro ambiente che non quello accademico o locale. Ma quella era tutta eccitata, non smetteva un istante di gracchiare in un dialetto che faticavo a comprendere. Mi fece entrare lesta in casa sua, una delle poche con la porta e le due finestre immacolate di vernice lucente, uno smalto verde vomitella, che sembravano richiamare il tema Muffa del Nord degli intonaci esterni.
“Va lì che ne ho poco di tempo da buttar via! Dunque, l’affitto l’è di cinquantamila, tre meis sul palmo più el meis che l’è già ‘n curs! L’apartament l’è chi di front, una bella stanzetta, cucinina e uno sgabussino bell’e gros! el bagno… il viccì, l’è propri lì, sul ballatoio di fianco, subìt fora a destra a la porta. Ce l’ho detto al professùr: Niente drogati, lazzaroni e terùn! Che siamo già pieni!”
Mi venne da ridere. Lei mi guardò contenta, come se avessi approvato parola per parola. Cominciò a versare del caffè da un bricco che aveva appena levato dal fuoco. Un caffè annacquato che ribolliva cattivo e colloso. Al solo guardarlo mi fece venire in mente quando da piccolo giocavo con le mie amiche a Mamma e Figli e queste miscelavano acqua e terriccio che poi si fingeva fosse uno splendido caffè. Un giorno ne ho mandato giù un sorso ed ho continuato a sputacchiare disgustato per un paio di giorni. Presi la tazzina senza nessuna intenzione di portarla alla bocca e sorrisi di nuovo.
Va ti che bel suris! Si vede né che sei di buona famiglia. Un po' con sti cavei da capellone… ma siete giovani! Alùra, ch’el dis? Va bene?”
La squadrai per bene, soffermandomi involontariamente sulle enormi tette strizzate dal busto che sembravano gridare aiuto. Presi fiato e iniziai con un lungo ed asettico “Ma….” Lei non colse quanto mi approssimavo a dire, anzi! Mi mise una mano sulla bocca, sorrise scuotendo la testa e si affrettò a mettere in chiaro che se era per le ragazze, quella era una palazzina per bene, nonostante i meridionali e certa gente che prima o poi avrebbe sbattuto fuori, ma siccome ero una persona a ‘modino’ e si vedeva che non avrei creato problemi, avrebbe chiuso un occhio, purché ci si capisse. A questo punto la bloccai.
“No, guardi…”
“Bon! Facciamo che questo mese che l’è quasi a metà va via così. L’anticipo però…”
“Facciamo che le do novantamila per tre mesi, visto che il cesso è sul ballatoio. Come mi ha detto il professore!”

Si bloccò cessando ogni moina e buona grazia. Osservò con disappunto la tazzina del caffè lasciata integra. Fece un passo indietro e mi chiese severa.
“Tu sei mica il filosofo che diceva il professore!”
“Si. Sò io, signò! Ma non sono un filosofo, mi chiamano Il Filosofo!”

Calcai la mano del terrone nelle sue orecchie. Tanto già lo sapevo come sarebbe andata a finire. Invece lei se ne stava in silenzio, contrariata e nervosa, che si agitava sulla gamba facendo ondeggiare le due tettone. Battè forte le mani un paio di volte, nel classico gesto di frustrazione e rabbia incontenibile. Un popolare gesto teatrale comune a molte latitudini.
Ma tu dimme, madonna mia… se me devo trovà sempre a esse cojonata! No, dico, à regazzì! Ma ce lo sapevi che so romana e me sei stato a pijà per culo?
No. Ma perché si è messa a fare la milanese, torinese o che ne so?”
“Bello mio! Qua si nu ffai er nordico coi controcazzi nu piji na lira da sta gente! Tanto più se sei de Roma! I mejo alla fine so i morti de fame… ma quelli der posto… sai quanno je stai sur gozzo? Appena ponno te fanno nera!”


Nera. Che profezia. 1976.

Roba vecchia. La bandiera padana al posto del tricolore c’era già.

Nik ex turista e no emigrante.

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